Condanna al condòmino per “danno punitivo” se chiede la revoca dell’amministratore in mala fede. Ciò è quanto ha stabilito la Corte di Cassazione con Ordinanza del 24 ottobre scorso, Sezione 6 Numero 27326 Anno 2019 (Relatore: ABETE LUIGI).
Il caso trattato prende spunto da un ricorso per revoca dell’amministratore ai sensi degli articoli 1129, comma 11, e 1131, codice civile, il quale si è concluso, dopo lo svolgimento delle due fasi procedimentali (in sede di giurisdizione volonaria), con il rispettivo rigetto.
Anzi, la Corte di Appello di Milano, proprio in ragione dell’insuccesso ripetuto, aveva pensato bene di condannare il ricorrente, non solo al pagamento delle spese legali del procedimento in favore dell’amministratore resistente, ma anche ad una somma di danaro per lite temeraria (equitativamente deteminata nell’importo pari d €1.000,00).
Evidenziava, a tal proposito, il giudice del gravame, che i profili di consistente colpa insiti nella determinazione di proporre reclamo avverso un provvedimento del tutto coerente con le risultanze probatorie, giustificavano la condanna ai sensi dell’art. 96, comma 3, Codice procedura civile (a mente del quale:<<In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata>>).
La questione è pervenuta, in tutta la sua portata, avanti ai giudici di legittimità che confermano la legittimità del provvedimento adottato dalla corte meneghina.
Per la Corte di Cassazione la responsabilità aggravata in esame è applicabile al caso in specie e, a differenza delle previsioni di cui ai primi due commi della medesima norma, non richiede la domanda di parte né la prova del danno, ma esige pur sempre, sul piano soggettivo, la mala fede o la colpa grave della parte soccombente.
Quest’ultima, per inciso, sussiste nell’ipotesi di violazione del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l’infondatezza o l’inammissibilità della propria domanda, non essendo sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate.
Peraltro, sia la mala fede che la colpa grave devono coinvolgere l’esercizio dell’azione processuale nel suo complesso, cosicché possa considerarsi meritevole di sanzione l’abuso dello strumento processuale in sé, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta.
In buon sostanza, per applicazione dell’istituto si deve trattare di un caso di pretestuosità dell’azione per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, ovvero per la manifesta inconsistenza giuridica o la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione (al fine, è stato richiamata la Cassazione, Sezioni Unite, 20 aprile 2018, n 9912).
Con l’applicazione di tale istituto, l’amministratore professionista è stato ampiamente tutelato dalle pretestuose accuse rivoltegli da un condòmino e, a questo punto, anche equamente risarcito.
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